Leonardo da Vinci a Palazzo Besta in Valtellina? No.

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di Diego Cuoghi


Alla fine dell’articolo intitolato Leonardo da Vinci e Giovannina, dopo aver elencato una serie di bislacche ipotesi mysteriche sull’Ultima Cena, scrivevo che sicuramente non sarebbero state le ultime a veder coinvolto Leonardo in complotti esoterici di moda dopo il successo del Codice da Vinci.
Di recente abbiamo infatti sopportato coltelli fantasma (impugnati da nessuno, da Giuda o da un Mister-X acquattato tra gli apostoli, a seconda degli autori), templari rivelati da sovrapposizioni di stampe capovolte, musiche misteriose nascoste nelle pieghe della tovaglia, meridiani terrestri nelle stesse pieghe della tovaglia (mettetevi d’accordo!), profezie sulla fine del mondo, maddalene a non finire…
Poteva bastare.

Invece eccoci alle prese con l’ennesimo mystero leonardesco, questa volta proposto da Riccardo Magnani, secondo il quale gli affreschi della
Sala della Creazione di Palazzo Besta a Teglio in Valtellina, sarebbero da attribuire senza ombra di dubbio a Leonardo, che li avrebbe realizzati nel 1493 (ma successivamente, in un forum, ha parlato più genericamente del decennio tra il 1480 e il 1490).

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Il cortile di Palazzo Besta e la Sala della Creazione. Foto di Felice Stoppa, tratte da
Atlascoelestis.it

Magnani ha esposto le sue teorie, oltre che nel libro intitolato Anamorphosis (Sangel Edizioni, 2010), anche in pagine web e interviste, e in diverse conferenze in giro per l’Italia. In una intervista, alla domanda su come avesse avuto inizio la sua passione per Leonardo ha risposto che «non c’è stato un momento iniziatico preciso, stante che Leonardo, come molti altri aspetti del nostro passato e presente, ha da sempre catturato la mia inconscia attenzione e curiosità», mentre in un’altra intervista ha affermato che l’idea che Leonardo avesse affrescato la Sala della Creazione «è nata quasi due anni fa, dopo aver visto la puntata della trasmissione di Rai Due “Voyager” nella quale veniva presentato il mappamondo affrescato sul soffitto di palazzo Besta a Teglio. Con l'autorizzazione della Sovraintendenza dei Beni culturali mi sono recato in Valtellina per vedere di persona gli affreschi e fotografarli, e mi sono reso conto che erano davvero molto particolari. Ho compreso che potevano essere riconducibili a Leonardo Da Vinci, soprattutto il mappamondo che è molto caratteristico sotto il profilo tecnico».

Leonardo?


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Leonardo quello?

Anche un allievo di liceo capirebbe che di quell’artista non c’è la minima traccia perché Leonardo non ha mai dipinto in quel modo, né prima né dopo l’epoca indicata da Magnani. Per immaginare un Leonardo che dipinge le scene della Sala della Creazione dovremmo dimenticare TUTTA l'opera dello stesso autore visto che lo stile di Palazzo Besta non ha niente a che vedere con il suo. Un artista non si sveglia una mattina cambiando completamente modo di dipingere, per poi improvvisamente tornare allo stile consueto dopo qualche mese (quanto tempo sarebbe rimasto Leonardo a Teglio? quanto tempo potrebbe aver richiesto una sala come quella considerando le abitudini di Leonardo descritte dai contemporanei?).

Per arrivare ad attribuire a Leonardo quella sala dobbiamo immaginare una specie di
amnesia + viaggio nel tempo che improvvisamente colpisce l’artista. Un flash di luce abbagliante lo proietta nella seconda metà del Cinquecento, in quell’epoca ha modo di vedere le opere di autori manieristi, e di colpo dimentica il suo modo di dipingere. Un altro flash e Leonardo torna alla fine del Quattrocento, sconvolto dalla novità artistica del futuro. Smette l'olio, smette la tempera grassa, si converte improvvisamente all'affresco e va a Teglio in incognito a dipingere una sala in uno stile non suo e diversissimo da quello del tempo. Leonardo rimane a Teglio molti mesi, nessuno lo riconosce e neppure cita il suo lavoro in cronache o lettere, poi torna a Milano e... riprende a dipingere con il suo stile abituale. Nel frattempo nessuno si accorge che a Palazzo Besta c’è un’intera sala dipinta dall’artista e neppure si stupisce per lo stile, inimmaginabile alla fine del Quattrocento. No, non è possibile, abbandoniamo la fantastoria e torniamo alla realtà.

Gli storici dell’arte che si sono occupati di quegli affreschi li hanno collocati alla fine del Cinquecento (un secolo dopo l’epoca indicata da Magnani), per gli evidentissimi motivi stilistici, per la derivazione da ben note incisioni e per le testimonianze ricavate dai restauri dell’edificio che hanno permesso di collocare cronologicamente i diversi interventi edilizi effettuati a Palazzo Besta (vedi bibliografia a fondo pagina).

Ci si aspetterebbe di trovare qualche dubbio da parte dei giornalisti che hanno intervistato Magnani, se non sullo stile almeno una domanda sul fatto che Leonardo non ha mai dipinto ad affresco. La perduta
Battaglia di Anghiari che l’artista iniziò a dipingere su una parete del salone di Palazzo Vecchio a Firenze era ad encausto (una tecnica che prevedeva l’essiccazione dei colori tramite fonti di calore), mentre l’Ultima Cena è stata realizzata a tempera grassa su intonaco secco, ed è per questo che già dopo pochi decenni era in rovina. La tecnica ad affresco richiede velocità perché i colori a base minerale devono essere stesi sull’intonaco ancora umido che, grazie al processo di carbonatazione, li ingloberà rendendoli così molto resistenti nel tempo. Leonardo invece lavorava lentamente, con velature sovrapposte di colori. Per dipingere l’Ultima Cena impiegò anni, portando all’esasperazione i committenti che si lamentavano per il ritardo.
Niente. Tutti disposti a prendere per buone queste teorie su Leonardo a Palazzo Besta senza fiatare. Il mystero all’ultima moda rende muti fino a questo punto?

Mi chiedo anche come sia possibile credere così ciecamente nelle proprie tesi preconcette, senza porsi il minimo dubbio, senza fare alcuna seria ricerca preliminare in campo storico-artistico. Magnani non è uno storico dell’arte, è laureato in Economia e Commercio, ma questo non significa niente, si può essere esperti in un argomento senza essersi obbligatoriamente specializzati in quel settore di studi.
La risposta possiamo trovarla forse in una
intervista pubblicata nel 2010 nel sito Lib(e)ro Libro, e in particolare in questa frase rivelatrice: «Credo che la mia dote principale sia quella di saper andare oltre la ragionevole attesa dogmatica e didattica. La costruzione con la quale ho inteso formulare questo mio piccolo ma incisivo percorso nella conoscenza del messaggio leonardesco è stato proprio assumere come spunto le informazioni convenzionalmente accettate, di cui Wikipedia, salvo verifiche, è un ottimo compendio, per poi riformulare attraverso queste stesse informazioni un percorso di lettura diverso, ma paradossalmente più realistico di quanto si assume ragionevolmente essere secondo la dogmaticità, in questo caso didattica».

Magnani afferma di aver rifiutato la “dogmaticità didattica” (lo ripete due volte) in favore delle “informazioni convenzionalmente accettate,” trovate in internet, in Wikipedia. A mio parere le sue affermazioni derivano più dai siti mysterici che da Wikipedia, infatti lì avrebbe perlomeno trovato qualche informazione corretta sia su
Leonardo che su Palazzo Besta di Teglio, ad esempio il fatto che il planisfero che si trova nella volta della Sala della Creazione è la copia di quello disegnato nel 1545 da Caspar Vopel.

Proprio da questo importante particolare della decorazione della
Sala della Creazione voglio partire per elencare tutti i principali motivi che portano ad escludere la possibilità che quell’ambiente possa essere stato affrescato nel Quattrocento, tantomeno da Leonardo.


Il planisfero di Palazzo Besta

Al centro del soffitto della Sala della Creazione si trova questa raffigurazione del mondo, racchiusa in un riquadro di cm 276 x 106.

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Maria Luisa Gatti Perer nel 1984, sulla base delle indicazioni geografiche, ipotizzò una datazione alla seconda metà del ‘500 e lo collegò con la Sala dei Mappamondi di Palazzo Farnese a Caprarola. Il primo studioso che si avvicinò all’identificazione dell’origine del planisfero di Palazzo Besta fu Giorgio Galletti, che nel saggio del 1989 intitolato Aggiunte al Palazzo Besta di Teglio ipotizzò che il modello utilizzato fosse la “Carta Cosmographica” di Hieronimo Girava del 1556, a sua volta copia dichiarata di quella di Caspar Vopel. Un esemplare si trova nella John Carter Brown Library, nel cui sito web si possono consultare moltissime altre mappe e planisferi.

In seguito Claudio Piani e Diego Baratono pubblicarono studi approfonditi su questa importante testimonianza della cartografia cinquecentesca, identificando con precisione il modello cartografico:
La scoperta del Nuovo Mondo passa per il cuore delle Alpi
Manifesto del convegno del 2007
Il secolare mistero del mappamondo porta a Vespucci

Il planisfero di Teglio si è quindi rivelato una riproduzione della carta geografica disegnata nel 1545 dal matematico tedesco Caspar Vopel (conosciuto anche anche come Vopell o Vopellius), della quale non rimangono che due copie postume. Alla Houghton Library dell’Università di Harvard, è conservata, anche se in cattive condizioni, l’edizione “abusiva” stampata nel 1558 a Venezia da Andrea Valvassore, detto Guadagnino, mentre alla Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel si trova l’edizione postuma della carta di Vopel stampata ad Anversa nel 1570 da Bernard van den Putte.

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Edizione del 1570 del planisfero di Vopel, stampata da Bernard van den Putte

Nel sito dell’Università di Harvard si può consultare fino ai più piccoli particolari una riproduzione in scala 1.1 dell’
edizione del 1558 della carta di Vopel.


Edizione del 1558 del planisfero di Vopel, stampata a Venezia da Andrea Valvassore.

Confrontando la carta di Vopel con la sua copia di Palazzo Besta possiamo notare la perfetta corrispondenza. Ritroviamo la stessa sagoma a “mantello”, i continenti con l’identica forma, l’equatore e il “meridiano zero” tratteggiati, ma soprattutto i nomi geografici riprodotti con i medesimi caratteri, nelle precise posizioni e perfino con gli stessi a-capo.

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Foto di Giuseppe De Marte

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Foto di Giuseppe De Marte

E ancora in altri punti del planisfero… LYBIA INTERIOR, AETHIOPIA INFERIOR, TARTARIA MAGNA, SINUS MAGNUS, MAGELLANICA…
In particolare quest’ultimo termine definiva, nei planisferi dell’epoca, la Terra del Fuoco e le isole che erano state intraviste da
Ferdinando Magellano nel viaggio che si concluse tragicamente nel 1521.

È quindi impossibile che alla fine del 400 qualcuno (tantomeno Leonardo, morto nel 1519 in Francia) abbia potuto immaginare un planisfero guarda caso uguale a quello che sarebbe poi stato disegnato da Caspar Vopel nel 1545, e corrispondente, sia nelle parti del mondo raffigurate in modo preciso che in quelle approssimative o completamente sbagliate, alla cartografia della prima metà del Cinquecento. Ho scritto “in quelle sbagliate” non a caso, infatti fino ai primi decenni del Cinquecento molti ritenevano che solo l’America del Sud fosse un nuovo continente, mentre quella del Nord, raggiunta da Cristoforo Colombo, veniva immaginata e rappresentata come l’estremità orientale dell’Asia. In diversi planisferi e mappamondi, compresi quelli di Vopel e di Palazzo Besta, quella regione è definita “Asia Orientalis” e al suo interno, non lontano dalla “Florida”, spesso si legge il nome della Cina descritta da Marco Polo, ovvero “Cathai”.

Il mappamondo di Leonardo

Leonardo ha mai disegnato un vero e proprio planisfero o un mappamondo?


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Oltre agli schizzi del foglio 521r del Codice Atlantico, in cui l’artista effettua “molti studi di prospettiva estesi alle sfere e in particolare a quella terrestre” (A. Marinoni), nella Windsor Library si trova un disegno che alcuni storici come Richard Henry Major (1864) e Enrico Carusi (1941) hanno attribuito a Leonardo che l’avrebbe realizzato tra il 1513 e il 1514, mentre per altri come Jean Paul Richter, il curatore di The Notebooks of Leonardo da Vinci (1888), e Carlo Pedretti (1964) si tratterebbe del disegno di un allievo (Pedretti, basandosi sulla grafia, fa il nome di Francesco Melzi), forse basato su un primo schizzo del maestro visibile nel già citato foglio del Codice Atlantico.
In questi otto “spicchi”, probabilmente l’abbozzo di quello che avrebbe dovuto diventare un vero mappamondo in legno, vediamo però una raffigurazione del globo molto diversa da quella di Teglio, decisamente più “arcaica” nonostante contenga il nome America comparso per la prima volta nella carta di Waldseemuller del 1507.


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Una volta ricostruito l’aspetto che avrebbe avuto il globo, ci rendiamo conto che sul “nuovo mondo” le conoscenze di Leonardo, o del suo allievo, erano molto limitate rispetto a quelle dei cartografi del Cinquecento. Notiamo la Florida raffigurata come un’isola, l’America del Sud come un continente piuttosto piccolo e la completa assenza dell’America del Nord, mentre Il Catay (la Cina) e l’isola di Zipugna (il Giappone, chiamato Zipangu da Marco Polo) si trovano a poca distanza dalla Florida. Si tratta in pratica di una raffigurazione derivata dalle prime testimonianze di Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci, non da quelle dei navigatori che raggiunsero ed esplorarono il nuovo mondo dopo di loro, e molto simile a quella di Francesco Rosselli (1508).



L’America e la Terra Australis

Sono moltissime le mappe cinquecentesche che raffigurano la
Terra Australis Incognita, il continente che “doveva” esistere all’estremo sud del mondo secondo i filosofi greci, già a partire da Pitagora. Essi avevano già immaginato che la Terra fosse sferica, ne avevano anche calcolato con buona approssimazione il diametro (Eratostene nel terzo secolo a.C.) e pensavano che se c’erano terre emerse a nord dovevano essercene altrettante anche a sud, altrimenti il mondo sarebbe risultato sbilanciato. Sul mito della Terra Australis sono stati scritti moltissimi libri e in tutti gli studi sulla storia della cartografia sono pubblicati planisferi e mappamondi che raffigurano questo fantastico continente, che però non è l'Antartide privo dei ghiacci, come ipotizzato in libri e siti di mystero, ma una terra immaginaria che alcuni geografi (ad esempio Philippe Buache) nelle note sulle loro carte definiranno molto chiaramente “conjecturée”, ovvero congetturale, ipotetica, basata solo sulle scarse testimonianze dei navigatori dell’epoca.

Dopo le prime esplorazioni seguite alla scoperta dell'America i navigatori portarono notizie su nuove terre scoperte a sud, come la Terra del Fuoco. Lo stesso successe con gli esploratori portoghesi che raggiunsero le isole ad est dell’India come Java, Sumatra, la Nuova Guinea e probabilmente le coste nord dell’Australia, e questo rafforzò l'idea che il continente mitico esistesse davvero tanto che venne rappresentato, spesso di enormi dimensioni, in molte mappe cinquecentesche.
Minore importanza invece veniva data alle scoperte di Cristoforo Colombo, che all’inizio del Cinquecento non era considerato lo scopritore di un “nuovo mondo”. A lui si attribuivano importanti viaggi, però si pensava avesse raggiunto l’estremità orientale dell’Asia, quindi un luogo già descritto in precedenza da Marco Polo. Lo scopritore di un “nuovo mondo” venne considerato Amerigo Vespucci, in quanto nelle sue lettere raccontò di aver esplorato le coste di un nuovo continente fin quasi a raggiungere, a suo dire, il 50° parallelo sud.

Nella
Cosmographiae Introductio, il testo di Matthias Ringmann che accompagnava la carta del mondo disegnata da Martin Walseemuller nel 1507 intitolata Universalis cosmographia secunda Ptholemei traditionem et Americi Vespucci aliorum que lustrationes, troviamo la spiegazione del nome “America” assegnato per la prima volta a quella parte del mondo conosciuto:
«
Queste parti sono in effetti ampiamente esplorate, insieme a una quarta parte scoperta da Amerigo Vespucci (come di seguito verrà spiegato). Dal momento che Asia e Africa furono battezzate con nomi di donna, non vedo perché questa non possa essere chiamata Amerigen (cioè la terra di Amerigo) o America, come omaggio al suo scopritore, uomo di acuto ingegno».
Copie della carta di Waldseemuller iniziarono ad apparire dal 1510, ricopiate dal matematico Petrus Apianus, dal docente di ebraico Sebastian Munster, e da altri studenti di geografia. In seguito Waldseemuller ritrattò l’attribuzione a Vespucci della scoperta, ma ormai il nome America si era diffuso tra gli studiosi. E a poco servì anche l’indignazione di
Bartolomeo de Las Casas che scrisse di essere stupito che il figlio di Cristoforo Colombo, Fernando, «non abbia notato in che modo Vespucci abbia usurpato la gloria di suo padre». Come scrive Toby Lester in La mappa perduta. Storia della carta che cambiò i confini del mondo (un libro che consiglio a chiunque abbia interesse per la storia delle esplorazioni e della cartografia), il nome America «dal suono poetico e perfettamente accostabile ad Asia e Africa ed Europa, semplicemente apparve nel luogo giusto al momento giusto e non c’era possibilità di tornare indietro».

L’unico esemplare originale della
carta di Waldseemuller è oggi conservato presso la Library of Congress di Washington.


Carta di Martin Waldseemuller del 1507.

Anche nel planisfero di Caspar Vopel del 1545 troviamo in bella evidenza la dicitura “America”, poco a sud dell’Equatore, ma si legge anche che è stata “scoperta da Cristoforo Colombo nell’anno 1497, per conto del re di Castiglia”. La data però è sbagliata perché il terzo viaggio di Colombo, che raggiunse le coste dell’attuale Venezuela, si svolse nel 1498.


Particolari del planisfero di Caspar Vopel.


In una lunga frase in basso, sia nel planisfero di Vopel che nella copia di Palazzo Besta, leggiamo “Terra Australis recenter inventa anno 1499 sed nondum plene cognita” (ovvero terra Australe di recente scoperta nell’anno 1499 ma non completamente conosciuta). La stessa identica scritta era già apparsa in un mappamondo del 1535 e senza l’indicazione dell’anno nella carta di Oronce Fine del 1531, mentre in quella dello stesso autore del 1534 troviamo “examinata” invece che “cognita”.


Particolari delle carte di Oronce Fine del 1531 e 1534.


La citazione dell’anno 1499 in alcune carte è forse dovuta alla convinzione, da parte dei cartografi dell’epoca, che fosse quello l’anno in cui Vespucci, durante l’esplorazione del “nuovo mondo” nel suo primo viaggio assieme a Alonso de Ojeda e Juan de la Cosa, si era reso conto che non si trattava di una parte dell’Asia ma di un nuovo continente, come il navigatore aveva raccontato nella sua famosa lettera a Pierfrancesco de’ Medici.

A differenza del planisfero di Vopel, del globo di Parigi e di altre raffigurazioni cinquecentesche del mondo, nella
Sala della Creazione di Palazzo Besta quella data, oggi poco leggibile, secondo Riccardo Magnani è 1459, e a suo dire sarebbe riferita alla data della fondazione dell’Accademia neoplatonica di Marsilio Ficino. Che rapporto possa avere la Terra Australis (alla quale si riferisce la frase che ancora si legge nel planisfero di Palazzo Besta) con l’Accademia neoplatonica non si sa. E con l’opera di Leonardo il 1459 avrebbe ancor meno a che fare, considerato che l’artista in quella data aveva solo sette anni.

Il chiarimento definitivo lo fornì nel 1989 Giorgio Galletti, che nel suo studio intitolato “
Aggiunte a Palazzo Besta, nuove ricerche e restauri” scrisse che «l’esame diretto sull’affresco, eseguito a luce radente e con calco a carboncino su carta velina, rivela che essa è effettivamente da leggersi 1499». Il planisfero infatti «presenta perfettamente leggibile il disegno preparatorio inciso sull’intonaco fresco», e l’incisione esiste non soltanto nei contorni dei continenti, ma anche in tutte le didascalie, così che l’apparente lettura come 5 del primo 9 può essere spiegata con una esecuzione rapida del ripasso col colore o con un errore di chi ha eseguito i restauri nel 1927.

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Una curiosità a proposito della scoperta dell’America: secondo Riccardo Magnani,
Cristoforo Colombo non era altri che Amerigo Vespucci sotto falso nome! In una pagina web infatti afferma che Lorenzo il Popolano «mandò Amerigo Vespucci a Siviglia, il quale, sotto lo pseudonimo di ‘Cristoforo Colombo’ e grazie anche ai finanziamenti di Lorenzo il Popolano, ‘scoprì’ il nuovo continente, regalando il prestigio di tale scoperta a Innocenzo VIII, il Papa libertino ed ebreo, sulla cui tomba in Vaticano è la scritta: Durante il suo regno la scoperta di un Nuovo Mondo».
Quel diabolico Amerigo doveva anche essere dotato del dono della bilocazione, infatti mentre con l’identità di “Vespucci” era a metà del suo primo viaggio verso il nuovo continente assieme a
Juan De la Cosa, con quella di “Colombo” si imbarcava per il terzo viaggio. E sia negli anni precedenti che seguenti le due diverse identità si sarebbero a volte alternate e a volte sovrapposte nei viaggi, nelle comparse in pubblico, nelle lettere inviate alle famiglie, ai regnanti di Spagna e d’Europa, e in tutti i rapporti intercorsi con il resto del mondo... insomma una specie di ubik-schizofrenia degna di un romanzo di Philip Dick.


Le costellazioni

Nel soffitto della Sala della Creazione sono raffigurati anche gli emisferi Boreale e Australe, con le rispettive costellazioni. Nel sito Atlascoelestis si trova una interessantissima trattazione di questi dipinti.

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Costellazioni boreali e australi della Sala della Creazione di Palazzo Besta.
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Il planisfero di Caspar Vopel del 1545 ci offre anche un altro indizio per datare la Sala della Creazione di Palazzo Besta. In basso, a destra e a sinistra, sono riprodotti gli stessi emisferi Australe e Boreale, con le costellazioni.


Costellazioni boreali e australi del planisfero di Caspar Vopel, edizione del 1558.


Queste raffigurazioni astronomiche si rifanno a incisioni di Durer del 1515, che a loro volta in parte riprendevano due disegni del 1503 di Conrad Heinfogel raffiguranti l’emisfero australe e boreale, a loro volta ispirati e due disegni della metà del Quattrocento facenti parte del Manoscritto di Vienna. Felice Stoppa, nelle pagine del sito atlascoelestis.com propone anche un confronto tra le costellazioni dipinte a Palazzo Besta e quelle disegnate da Giovanni Antonio Rusconi, incise su rame attorno alla metà del Cinquecento ma pubblicate solo nel 1590 nell’edizione dei Dieci Libri d’Architettura.

La versione più simile, fin nei minimi dettagli, a quella di Palazzo Besta appare quella di Caspar Vopel, che si conferma essere la fonte primaria delle raffigurazioni astronomiche e geografiche di quella sala. Nell’emisfero australe di Vopel, così come a Palazzo Besta, possiamo infatti notare una figura femminile che nuota nelle acque del fiume Eridano, non presente negli esempi citati in precedenza ma solo nell’
Astronomicum Caesareum di Apianus, del 1540.

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A sinistra, foto di Felice Stoppa, tratta da Atlascoelestis.it

Inoltre nella versione di Palazzo Besta c’è un ulteriore particolare che permette la datazione alla metà del Cinquecento. Tra le costellazioni dell’emisfero australe troviamo, pur se in posizioni non corrette, la Croce del Sud e le galassie che in seguito verranno chiamate Nubi di Magellano. Questi oggetti celesti vennero descritti e disegnati per la prima volta da Andrea Corsali in una lettera a Giuliano de’ Medici del 1516, scritta in seguito ad un viaggio comprendente la circumnavigazione dell’Africa e la traversata dell’Oceano Indiano. La lettera, assieme alla successiva del 1519 indirizzata a Lorenzo de’ Medici, venne resa di dominio pubblico in seguito alla pubblicazione della raccolta Delle navigazioni et viaggi di Giovan Battista Ramusio, edita a Venezia in tre volumi rispettivamente nel 1550, 1556 e 1559. Le “nubi” prenderanno il nome di Magellano perché verranno descritte anche da Antonio Pigafetta, che accompagnò il navigatore nel tragico viaggio che si concluse alle isole Filippine nel 1522. Ma nella raffigurazione di Palazzo Besta appaiono uguali nella forma e nella posizione al disegno di Andrea Corsali del 1516.

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Foto di Felice Stoppa, tratta da Atlascoelestis.it

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Le nubi di Magellano descritte da Andrea Corsali, in due copie della lettera a Giuliano de’ Medici (Biblioteca Nazionale di Firenze e National Library of Australia)


Alla fine del Quattrocento sarebbe stato possibile immaginare quelle costellazioni e corpi celesti che verranno conosciuti e descritti in quella forma solo dopo qualche decennio? L’ignoto autore di quei dipinti (che sicuramente non era Leonardo) possedeva la macchina del tempo? Aveva visto le Nubi di Magellano, disegnate da Corsali, in una sfera di cristallo?

Molti hanno sostenuto che già
Dante, in un canto del Purgatorio, avesse parlato della Croce del Sud:

I' mi volsi a man destra, e puosi mente
a l'altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch'a la prima gente.
Goder pareva 'l ciel di lor fiammelle:
oh settentrional vedovo sito,
poi che privato se' di mirar quelle!


Dante cita “quattro stelle” visibili dall’altro polo, ma non fa parola di una “croce”. Le “quattro stelle” di Dante potevano essere state osservate e raccontate da viaggiatori che si erano spinti all’estremo sud del mondo conosciuto in quell’epoca, quindi in Africa. Anche gli
astronomi di epoche precedenti potevano averle descritte, infatti fino al 400 dopo Cristo le stelle della Croce del Sud erano visibili, anche se basse sull’orizzonte, dal sud della Grecia e ancor meglio dall’Egitto, mentre in seguito, a causa della precessione degli equinozi e dell’apparente spostamento della sfera celeste, non furono più osservabili.

Quella che vediamo chiaramente raffigurata nel planisfero di Teglio è invece una vera e propria croce, non semplicemente quattro stelle, ed è così descritta per la prima volta nel 1516 da Andrea Corsali, di ritorno dal viaggio che lo aveva portato all’estremo sud del mondo conosciuto: «
Qui vedemmo un mirabil ordine di stelle, che nella parte del cielo opposita alla nostra tramontana infinite vanno girando. In che luogo sia il polo antartico, per l'altura de' gradi, pigliammo il giorno col sole e ricontrammo la notte con l'astrolabio, ed evidentemente lo manifestano due nugolette di ragionevol grandezza, ch'intorno ad essa continuamente ora abbassandosi e ora alzandosi in moto circulare camminano,con una stella sempre nel mezzo, la qual con esse si volge lontana dal polo circa undici gradi. Sopra di queste apparisce una croce meravigliosa nel mezzo di cinque stelle che la circondano (come il carro la tramontana), con altre stelle che con esse vanno intorno al polo, girandolo lontano circa 30 gradi, e fa suo corso in 24 ore, ed è di tanta bellezza che non mi pare ad alcuno segno celeste doverla comparare».
La Croce è descritta poi nella
Cosmografía dello spagnolo Pedro de Medina, il primo manuale di navigazione, pubblicato nel 1538: «È necessario sapere che i segni per riconoscere il Polo Antartico sono quattro stelle disposte a forma di croce. Queste stelle non sono uno dei segni dello Zodiaco, e nemmeno una delle 35 costellazioni del cielo. Il loro nome è Crucero».

Felice Stoppa, nella
pagina web dedicata alle costellazioni dipinte a Palazzo Besta fa notare che nell'emisfero boreale compare la Chioma di Berenice raffigurata come un pesce, caso unico in tutte le raffigurazioni astronomiche conosciute.

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A sinistra, foto di Felice Stoppa, tratta da Atlascoelestis.it

Mi sembra che una spiegazione possa essere trovata: il pittore di Teglio, ricopiando e ingrandendo le costellazioni da quelle disegnate da Vopel, non ha capito cosa potesse essere quella strana cosa fluttuante, e l'ha interpretata come un pesce. Per capire l'equivoco in cui è incorso dobbiamo pensare che la Chioma di Berenice alla metà del Cinquecento, nonostante fosse già conosciuta, era una novità nelle raffigurazioni astronomiche. Caspar Vopel è stato il primo a disegnare come una costellazione (in un globo del 1536 e poi nel planisfero) questa figura che non compariva nelle incisioni di Durer e neppure nei precedenti disegni di Conrad Heinfogel e nel Manoscritto di Vienna. Stesso discorso si può fare per l’animaletto sulla testa di Boote e per i cani da caccia, presenti nella Sala della Creazione e nel planisfero di Vopel ma in nessuno degli esempi precedenti.

Così come il planisfero terrestre tratto da quello di Vopel, anche le costellazioni raffigurate negli emisferi Australe e Boreale di Palazzo Besta ci permettono di datare quella sala a un epoca successiva alla morte di Leonardo.


Le scene bibliche e le incisioni di Bernard Salomon

Un aspetto importante per la datazione della
Sala della Creazione è poi rappresentato dalle scene che raccontano episodi dell’Antico Testamento, che troviamo sia sulla volta che nelle lunette.

Piani e Baratono, nel loro studio sul planisfero, accennano anche ad un particolare “rivelatore”, già trattato da Giorgio Galletti e Germano Mulazzani in
Il Palazzo Besta di Teglio. una dimora rinascimentale in Valtellina (1983), ovvero che gli affreschi a tema biblico sarebbero un momento celebrativo a suggello dell’atto maritale, avvenuto nel 1576, tra il cattolico Carlo I Besta e Anna Travers, nobildonna appartenente a una famiglia allora molto potente ed influente in Valtellina e di fede calvinista. Per i calvinisti era vietata la raffigurazione della divinità e infatti le scene della Storia della Creazione non presentano la figura di Dio Padre intento alla creazione del mondo, degli animali e degli esseri umani.

Gli storici dell’arte che si sono occupati di Palazzo Besta hanno identificato la fonte delle raffigurazioni che si trovano nelle lunette della
Sala della Creazione: si tratta delle incisioni di Bernard Salomon, artista francese attivo tra il 1540 e il 1560, pubblicate in una famosa e diffusissima edizione di Quadrins historiques de la Bible, edita anche in Italia nel 1554 col titolo Figure del Vecchio Testamento con versi toscani.

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Foto di Giuseppe De Marte


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La differenza in molte scene è, come si è già accennato, l’assenza della figura di Dio Padre, evidentissima ad esempio nella Cacciata dal Paradiso Terrestre, in cui Dio è trasformato in una specie di nube luminosa, o bozzolo, di forma ovale.

Per quanto riguarda il grande scomparto del soffitto con la
Creazione di Eva, la fonte è diversa. L’opera precisa dalla quale è stata tratta la scena è un’incisione di Jean Mignon tratta da un disegno di Luca Penni e datata attorno al 1547. Luca Penni, artista manierista allievo di Raffaello e cognato di Perin del Vaga, lavorò a Fontainebleau assieme ad altri pittori italiani tra il 1543 e il 1556, ed eseguì un grande numero di disegni specificamente destinati a essere tradotti in stampe.

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Nella versione di Palazzo Besta Dio sparisce e si trasforma in un tronco d’albero, ma qualche frammento rimane: una traccia del manto, un dito nella mano di Eva. Maria Luisa Gatti Perer (Precisazioni su Palazzo Besta, in “Arte Lombarda” n.67, 1984, pag.29), oltre a datare la Sala della Creazione alla fine del Cinquecento, ipotizza che l’artista che ha dipinto di questa scena e le altre del soffitto possa essere diverso da quello delle lunette, e che la figura di Dio nella Creazione di Eva sia stata cancellata in un’epoca più avanzata a causa dell’influenza calvinista nella Valtellina tra la fine del Cinquecento e il secondo decennio del secolo seguente. Gatti Perer ricorda che nel 1618 arriverà a prendere il potere in quella regione la fazione più fanatica e iconoclasta del partito protestante, che istituì a Thusis un tribunale speciale contro gli avversari politici che pronunciò 150 sentenze capitali (ma una sola venne eseguita) e numerose condanne al bando contro gli oppositori cattolici.

Anche un’altra sala di Palazzo Besta, la cosiddetta Sala delle Metamorfosi, è affrescata con scene tratte da incisioni di Bernard Salomon, in questo caso pubblicate in un’edizione del testo di Ovidio del 1557. L’attribuzione e la datazione dei dipinti sono ovvie in quanto compaiono sia il nome dell’artista che la data: Aragonus Aragonius brix.s. faciebat MDLXXX. Ed è importante ricordare che anche il Salone d’Onore di Palazzo Besta è stato decorato, probabilmente da Vincenzo de Barberis attorno al 1545 (Simonetta Coppa, 1985), ispirandosi a incisioni pubblicate in un libro. Si tratta dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, edito a Venezia da Giolito de’ Ferrari nel 1542, che doveva far parte, come gli altri volumi già citati, della biblioteca di casa Besta.
E’ possibile che chi ha dipinto la
Sala della Creazione sia uno di quei due artisti? Direi di no. Chi ha realizzato la Sala della Creazione lavora sicuramente meglio di quelli che hanno affrescato le altre sale, inoltre dimostra di aver assimilato lo stile, più tardi definito “manierista”, diffuso alla metà del Cinquecento da Giulio Romano, Primaticcio, Rosso Fiorentino, Nicolò dell’Abate, Parmigianino…


La Torre di Babele


Un particolare significativo sul quale possiamo soffermarci nell’esaminare questi dipinti è la
Torre di Babele, per la quale è innegabile la derivazione dalla incisione di Bernard Salomon della metà del Cinquecento

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A parte l'assurdità di immaginare come quattrocentesco quell'affresco anche semplicemente in base allo stile, è impensabile che una simile Torre possa essere stata dipinta nell’epoca indicata da Magnani, da Leonardo o da qualcun altro, anche a causa della forma stessa dell’edificio.

La raffigurazione della Torre di Babele conica, con un aspetto da Colosseo romano su piani sovrapposti non esiste infatti prima del Cinquecento. Nei secoli precedenti la Torre di Babele veniva raffigurata come una normale
torre.
Una delle prime torri di Babele a spirale la troviamo in una miniatura di un libro d’ore attribuita al Maestro di Bedford (1423), mentre nella miniatura contenuta nel
Breviario Grimani dell’inizio del 500 troviamo una evoluzione di quella spirale ma ancora con base quadrata:

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Nel 1526 Hans Holbein il Giovane propone una innovazione disegnando una Torre rotonda, questa forma inedita si espande in tutta Europa e si afferma a lungo (J. Vicari, La Torre di Babele, pag 134)



Tra il 1530 e il 1540 Amico Aspertini propone una versione a spirale ambientata in un contesto di rovine romane e nel 1547 Cornelis Anthonisz ne inventa una spettacolare versione disegnando una specie di immenso colosseo romano a piani sovrapposti che crolla rovinosamente:



L’edificio a spirale disegnato da Aspertini, comprese le rovine, potrebbe essere stato ripreso da Bernard Salomon nella scena che raffigura L’arresto di Giuseppe nei Quadrins Historiques de la Bible. Qui a confronto il disegno originale di Salomon e l’incisione:



Ed è proprio Bernard Salomon che con l’incisione pubblicata nei famosi Quadrins historiques de la Bible, un best-seller dell’epoca che ebbe moltissime edizioni a partire dal 1554, arriva forse per primo a diffondere nella cultura europea la forma che la Torre di Babele avrà in tante opere d’arte a partire da quel momento, compresa la versione di Palazzo Besta.


L’incisione di Salomon confrontata col dipinto di Palazzo Besta.
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Foto di Giuseppe De Marte

Ho scritto “forse per primo” parlando di Salomon perché nel 1553 Bruegel si trovava a Roma e da un documento del 1557 sappiamo che collaborò con l’incisore Giulio Clovio, un celebre miniaturista, per realizzare una prima raffigurazione della Torre di Babele, in forma di incisione su avorio. Purtroppo quell’opera è perduta e non sappiamo che forma potesse avere la Torre lì raffigurata. Le celebri versioni dipinte negli anni successivi da Bruegel confermano definitivamente il modello della Torre cinquecentesca in forma di enorme Colosseo conico in corso di edificazione, con folle di operai, animali che portano materiali, macchine, carrucole…



Se anche non risultasse evidentissimo dallo stile pittorico di tutta la sala, la Torre di Babele che vediamo a Teglio non potrebbe essere stata dipinta prima della metà del Cinquecento, tantomeno da Leonardo come sostiene Magnani.


Il paesaggio nella grottesca

Secondo Riccardo Magnani, Leonardo avrebbe lasciato una vera e propria “firma” nella
Sala della Creazione di Palazzo Besta, un piccolo paesaggio che raffigurerebbe Vinci, il paese natale dell’artista.

“Paesaggio”
Immagine tratta da una pagina di ufoforum.it

A parte l’assurdità di attribuire a Leonardo quel piccolo paesaggino schizzato in uno stile che dell’artista non ha assolutamente niente, oltretutto all’interno di grottesche in stile tardo-cinquecentesco, come si può riconoscere il paese di Vinci? non si sa, anche perché secondo Magnani l’unico elemento caratteristico del luogo, ovvero la torre del castello dei conti Guidi non sarebbe stata dipinta da Leonardo in quanto quella famiglia “era ostile ai Medici”.

La mancanza della torre non avrebbe alcun senso neppure se fosse vero che i Guidi all’epoca di Leonardo erano nemici dei Medici. Ma i Guidi vendettero definitivamente il castello di Vinci a Firenze nel 1273, quasi due secoli prima della nascita di Leonardo, quando i Medici non avevano alcun ruolo e Firenze era un Comune governato da un Podestà. Il paese di Vinci da allora rimase in mano ai fiorentini, e il castello da quella data divenne la sede del rappresentante in loco della città dominante, diventando nel 1372 sede di Podesteria e in seguito è sempre stato un possedimento fiorentino.

Che senso avrebbe avuto per Leonardo dipingere una veduta di Vinci in un Palazzo in Valtellina, ma senza la torre del suo paese che da più di duecento anni apparteneva a Firenze?


Il mais

Nella lunetta che raffigura Caino che uccide Abele, vediamo il primo (descritto nella Bibbia come agricoltore, a differenza di Abele che allevava bestiame) impugnare una pannocchia di mais, pianta originaria dell’America centrale, arrivata in Europa solo dopo i viaggi di Cristoforo Colombo.

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All’inizio il mais (chiamato anche “grano turco” o “grano indiano”, non per definirne l’origine geografica ma semplicemente in quanto proveniente da paesi non cristiani) venne considerato solo una curiosità esotica, una pianta da giardino e da orto botanico.
Le prime raffigurazioni di pannocchie di mais le possiamo trovare nei fregi floreali della
Loggia della Farnesina a Roma, dipinti attorno al 1518 da allievi di Raffaello come Giulio Romano, Raffaellino dal Colle e altri, e nelle Logge del Vaticano, realizzate nella stessa epoca dagli stessi artisti.

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Una raffigurazione botanica è quella di Leonardo Fuchs, del 1542, pubblicata in De Historia Stirpium. Troviamo pannocchie di mais anche in un portale ligneo del Palazzo Ducale di Venezia, scolpito sotto il dogado di Francesco Donà, quindi tra il 1547 e il 1553.

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La prima documentazione della coltivazione vera e propria del mais per usi alimentari è del 1554 e si riferisce a piantagioni nel veronese e nel basso Polesine.
Possiamo quindi capire come sia impossibile che un pittore del Quattrocento (tantomeno Leonardo nel 1493 come sostiene Magnani) abbia potuto dipingere una pannocchia di mais in quella lunetta.


Le ristrutturazioni di Palazzo Besta

Se i motivi stilistici, iconografici e cartografici non fossero sufficienti, ecco che la conferma definitiva alla datazione cinquecentesca ci viene dai restauri dell’edificio, durante i quali sono state trovate tracce che documentano senza ombra di dubbio come per realizzare la Sala della Creazione sia stata demolita la precedente sala quattrocentesca, della cui decorazione rimangono diversi e riconoscibili frammenti nello spazio sopra l'attuale soffitto:

Che la sala sia stata ricavata in un momento successivo rispetto alla prima fase di trasformazione della costruzione preesistente è confermato dal fatto che, nell'ambiente corrispondente al secondo piano, si nota la traccia dell'appoggio di un solaio in legno, al di sotto del quale restano avanzi di una precedente decorazione ad affresco a motivi vegetali, stilisticamente assai vicini a quelli della camera picta della Casa Besta de' Gatti a Teglio, che la Reggiani Rajna data alla fine del quattrocento (fig.126)" (Giorgio Galletti, Germano Mulazzani, Il Palazzo Besta di Teglio : una dimora rinascimentale in Valtellina, pag.92)

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Da questi ritrovamenti appare chiaro come la sala originale della fine del XV secolo sia stata sventrata per realizzare successivamente, quindi nel XVI secolo, la nuova
Sala della Creazione.

Vorrei chiedere ai lettori che hanno avuto la pazienza di arrivare fino a questo punto di osservare di nuovo con attenzione questo dipinto:


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Guardiamo quei corpi , quel gatto, i conigli, le anatre, l'unicorno che sbuca dietro l’albero, i pesci fuori dall’acqua, quegli alberi...
Leonardo?

Ma mi faccia il piacere!” (cit.)



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Pagina web della Regione Lombardia, Beni culturali: http://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/1n120-00087/

Bibliografia essenziale:

Giorgio Galletti, Germano Mulazzani,
Il Palazzo Besta di Teglio. una dimora rinascimentale in Valtellina, Banca Piccolo Credito Valtellinese, Sondrio 1983.
Maria Luisa Gatti Perer,
Precisazioni su Palazzo Besta, in “Arte Lombarda” n.67, 1984.
Galletti, Giorgio,
Aggiunte al Palazzo Besta di Teglio, in “Bollettino della Società Storica Valtellinese”, fascicolo 42, 1989, p. 139-167.
Claudio Piani,
L'affresco geografico di Palazzo Besta a Teglio (SO). Diffusione e scoperta di un documento, anello mancante nello scenario cartografico rinascimentale, in Rivista Geografica Italiana, 111, Firenze 2004.
Claudio Piani, Diego Baratono,
La carte dévoilée du Palazzo Besta, Actes du colloque du 12 mai 2007 “Saint-Dié-des Vosges baptise les Amériques”, Bialec, Nancy 2008.
Felice Stoppa,
La creazione del cielo a Palazzo Besta, in Astronomia, Anno XXXV, n.4 luglio-agosto 2010.
Angela Ottino Della Chiesa,
L'opera completa di Leonardo pittore, Rizzoli, Milano 1967.
Piero C. Marani,
Leonardo, una carriera di pittore, Federico Motta Editore, Milano 1999.
Pino Cimò,
Il Nuovo Mondo. La scoperta dell’America nel racconto dei grandi navigatori italiani del Cinquecento, Editoriale Giorgio Mondadori, Milano 1991.
Felipe Fernández-Arnesto,
Esploratori. Dai popoli cacciatori alla civiltà globale, Bruno Mondadori, Milano, 2008.
Rodney. W. Shirley,
The Mapping Of The World, early printed world maps: 1472-1700, Holland press, London 1987.
Toby Lester, La mappa perduta. Storia della carta che cambiò i confini del mondo, Rizzoli, Milano 2010.
J. Janick, G. Caneva,
The first images of maize in Europe, in “Maydica” n.50, 2005.
M. Bertolini, R. Franchi, F. Frisanco,
Il mais, una storia anche trentina, Istituto Agrario di San Michele all’Adige, 2005.
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