Intestazione

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NICOLÒ DELL'ABATE

Storie dipinte
nella pittura del cinquecento
tra Modena e Fontainebleau

Catalogo della mostra

Modena
20 Marzo -19 giugno 2005

Silvana Editoriale, 2005


 

Diego Cuoghi

“Ut Pictura Poesis”
Versi cortesi e figure dipinte nella rocca di Scandiano

 

 

Quando si parla dei dipinti realizzati da Nicolò dell’Abate a Scandiano per Giulio Boiardo nella prima metà del XVI secolo si pensa immediatamente a quelli ben conosciuti che facevano parte dei due ambienti denominati camerino dell’Eneide e Paradiso, già oggetto di uno studio precedente[1].

Presso la Galleria Estense sono conservati però anche altri frammenti dal soggetto non identificato, attribuiti allo stesso autore e censiti come provenienti da Scandiano[2], che non sembra abbiano fatto parte della decorazione dei due ambienti più famosi. Si tratta di frammenti di varie dimensioni, staccati dai muri e riportati su tela, in stato di cattiva conservazione o addirittura, come segnala Pallucchini, “rovinatissimi” [3].

Abate_vecchio Abate_Povertà Abate_ricchezza Abate_ramo Abate_Amanti Abate_Medico

Abate11 Abate12 Abate13 Abate14

Appare evidente l’appartenenza di queste opere a due distinti gruppi: il primo è composto da sei dipinti policromi (altezza circa 60 cm e larghezze tra 44 e 117 cm), il secondo è formato da quattro monocromi di piccole dimensioni (altezza circa 30 cm e lunghezza 47 o 59 cm) che raffigurano quelle che il catalogo della Galleria Estense definisce Scene di storia romana non identificata[4]. Studi recenti[5] hanno riportato tra i frammenti non identificati anche una lunetta (cat. 62c) che in passato era stata catalogata come appartenente alla decorazione pittorica del camerino dell’Eneide. Walter Bombe nel 1931 descrivendo questo dipinto in un articolo dedicato ai dipinti dell’Eneide parlò di “una vera e propria allegoria della pace” in cui un giovane nudo offre un ramo d’olivo ad una donna in trono, interpretata come una “personificazione del buon governo” [6].

Per quanto riguarda il primo gruppo di dipinti policromi, già nel 1969, durante i restauri finalizzati alla mostra bolognese curata da Sylvie Beguin, vennero ritrovate tracce di una uniforme striscia scura nella parte superiore e in quella inferiore di un ornato con un motivo architettonico che fecero supporre la provenienza da uno stesso ciclo[7]. Anche Amalia Mezzetti, curatrice della mostra modenese del 1970, ribadì che la scena definita Allegoria della pace doveva essere strettamente legata con la serie di frammenti del fregio paesaggistico, soprattutto per la somiglianza, non solo stilistica ma tematica, con un altro dipinto intitolato Uomo nudo con scudo dinanzi a una donna che allatta (cat. 62b) [8].

Abate_5.Abate_4

Malgrado l’interesse dimostrato per questi frammenti da diversi studiosi, nessuno riuscì a decodificare i soggetti e la relazione tra le varie scene. Nei monocromi con le Scene di storia romana Giovanna Paolozzi, nel catalogo della mostra Signore cortese e umanissimo, viaggio intorno a Ludovico Ariosto, aveva però già evidenziato un motivo conduttore: in tutti e quattro i casi si tratta di scene che vedono come protagonisti dei personaggi femminili, quindi “storie di donne”[9].

L’evidente diversità dei temi e dello stile di questi dipinti da quelli appartenenti al ciclo dell’Eneide non rendevano credibile l’ipotesi che potessero essere i frammenti perduti, quelli che secondo le descrizioni dell’epoca si trovavano sul soffitto del camerino e che vengono definiti “medaglioni” e “teste coronate d’alloro”[10]. Ho quindi provato a immaginare quali luoghi della Rocca potessero essere decorati con altri cicli narrativi.

Il cortile

Il primo studio sui dipinti di Nicolò dell’Abate a Scandiano è quello di Giambatista Venturi, storico scandianese che nel 1821 dà alle stampe un grande in folio[11] contenente, oltre alle incisioni realizzate da Antonio Gajani e da Giulio Tomba tratte da disegni eseguiti prima dell’incendio, una descrizione dei dipinti del camerino e un saggio sull’attività del pittore e sull’opera di diversi altri artisti che hanno rappresentato l’Eneide. Di Venturi sono conservati, presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia anche gli appunti e gli schizzi preparatori agli studi sulla Rocca di Scandiano, databili ai primi anni del XIX secolo; tra questi un manoscritto in cui l’autore illustra il cortile della rocca con vari disegni commentati da brevi annotazioni[12]. Si può fare riferimento a queste descrizioni per raffigurarsi l’aspetto di parte del cortile, soprattutto dei lati nord e est, rimasti in gran parte invariati dall’epoca dei Boiardo. Venturi afferma che nelle pareti affrescate erano rappresentati “in due grandi compartimenti, alcuni dei fatti magici del poema del Boiardo con interposte figure colossali, diversi scudi con le arme delle famiglie alleate di sangue coi Boiardi e altri piccoli quadretti”.

Abate_1 .. Abate_2

Due disegni in particolare, uno a penna e uno a matita, rappresentano il lato nord, diviso in tre settori separati da colonne binate a piano terra e singole al primo piano. Sotto le finestre corre un fregio con una serie di stemmi, quelli che si afferma essere relativi alle famiglie imparentate con i Boiardo. Le finestre sono sovrastate da trabeazione e timpano triangolare, e a fianco di ognuna si trovano due personaggi contenuti entro nicchie dipinte. Nei due grandi compartimenti a piano terra delimitati dalle colonne si intravedono altre scene, ma anche queste, come le figure nelle nicchie, sono quasi impossibili da decifrare a causa dell’ormai totale scolorimento del disegno (fig. 5).

Possiamo ricostruire i loro soggetti grazie alla testimonianza di Antonio Boccolari, singolare figura di restauratore presso l’Accademia di Belle Arti di Modena, che, avendo ideato una particolare tecnica di distacco degli affreschi, si reca nel 1804 a Scandiano per eseguire lo “strappo” di quelli che ancora rimangono.[13] Vengono descritti, dal notaio che lo accompagna nella ricognizione, alcuni dipinti del lato nord che rappresentano “un guerriero sedente in trono con diversi consiglieri a lato, un militare pure sedente ai piedi del primo, un incendio di fabbricato e una donna colpita da spavento in atto di fuggire con un fanciullo che tiene per mano” e “una statua colossale in nicchia, sottostante al precedente dipinto a color chiaro scuro verde rappresentante una donna che tiene nella mano sinistra una testa per i capelli sopra un vaso e nella mano diritta una sciabola in alto”[14]. Questa descrizione risale al maggio del 1804, e già nel luglio dello stesso anno i dipinti vengono staccati; è così possibile datare gli appunti e i disegni di Venturi ai primissimi anni del diciannovesimo secolo.

Sotto il secondo schizzo, quello a matita ormai quasi illeggibile, un breve commento descrive l’aspetto delle altre parti del cortile: “A mattina continua il medesimo disegno, le tre finestre sono aperte, e così anche al mezzodì. A mattina le pitture sono rovinate, a mezzodì non vi sono che nella metà orientale, la metà occidentale è fabbricata gregia. A ponente nell’alto non vi è mai stato dipinto, nel basso sì ma è rovinato, qui pure sono tre finestre, sempre doppie”. In alcune fotografie del cortile, scattate nei primi decenni del ‘900, appaiono ben visibili avanzi dei dipinti che decoravano tutto il cortile, e che, come già aveva riprodotto Venturi nei suoi schizzi, inquadrano le grandi finestre con elementi architettonici quali colonne, trabeazioni, timpani (fig. 4).

È documentato inoltre che nel cortile erano affrescati anche la lunetta e lo stipite sottostanti il voltone d’ingresso, rispettivamente con una scena rappresentante un “concerto” e un “guerriero gigantesco”. Questi dipinti sono citati da Morsiani, che alla metà del secolo XVIII scriveva: “si rimirano per dietro alla porta dell’istessa Rocca entrando dal piazzale a man destra, e sono di tre figlioli del Co. Gioan Boiardo che stanno sonando a lumi l’instrumenti da fiato e la dama che suona la spinetta, benché in aria giovanile è la Giulia Gambara loro madre, (...). Il Guerriero di statura gigantesca vestito di tutt’arma colla spada nuda alla mano in atto di difesa è lo stesso conte Gio. Bojardo”[15]. Anche Antonio Vallisneri nel 1730 ricordava che “dietro la porta maggiore v’è la figura gigantesca d’Orlando, vestito a ferro, con la spada nuda alla mano, in atto di ferire chi entra e di farne difesa”[16]. L’iconografia del “guerriero custode del palazzo” non è molto diffusa in area padana ma consueta in quella alpina e tedesca. In Emilia la possiamo ritrovare ad esempio nella figura gigantesca di un guerriero con armatura e spadone a guardia del Palazzo dei Pio a Carpi, riemersa nel 1994 durante i lavori di restauro[17], e nei guerrieri armati che compaiono nel fregio esterno del reggiano Palazzo Fossa[18].

Le testimonianze di diversi storici e cronisti locali portano a ritenere probabile che i soggetti rappresentati nel cortile fossero episodi dell’Orlando Innamorato, come affermato da Venturi, o del Furioso, come affermato sia da Vedriani[19] che da Tiraboschi[20]. Ma se è attendibile la datazione riportata nella Cronaca di Geminiano Prampolini, redatta attorno al 1540, secondo il quale Giovanni Boiardo fa “dipingere per eccellenti pennelli il cortile, finito nel 1520, istoriandolo con le invenzioni tolte dal poema del Boiardo”[21], quei dipinti perduti non possono certamente essere attribuiti a Nicolò dell’Abate (nato verosimilmente nel 1509). Probabilmente le decorazioni del cortile nella loro prima esecuzione risultano insufficienti alle esigenze qualitative del nuovo conte Giulio, oppure essendosi rapidamente deteriorate vengono sostituite da altre, realizzate da Nicolò dell’Abate[22]. Massimo Pirondini[23] ha ipotizzato che Nicolò dell’Abate abbia aggiunto nel cortile della Rocca, solo parzialmente dipinto con le storie dell’ Innamorato, le scene del Furioso le quali, data la notorietà ben presto acquisita dall’artista in Emilia, offuscarono il ricordo delle precedenti nonché dell’ignoto autore che le aveva dipinte[24]. Anche Jeanne van Waadenoijen, trattando di alcuni disegni di Nicolò che hanno soggetti tratti dall’Orlando Innamorato, ricorda come “il famoso poema del Boiardo composto per la corte estense, già negli anni in cui era attivo Nicolò dell’Abate era stato superato dalla fama del poema che ne era la continuazione, l'Orlando Furioso dell’Ariosto”[25], e lo stesso Nicolò infatti, attorno al 1540, affrescherà con storie tratte dal più recente poema una sala del Palazzo Torfanini a Bologna.

Orlando Innamorato

Sappiamo dunque che il cortile era decorato, probabilmente con le storie di Orlando. Sono davvero tutti perduti questi dipinti? Quei frammenti policromi attribuiti a Nicolò possono ricondursi ai temi illustrati nel cortile, citati dai diversi cronisti?

Una prima ricerca è stata condotta sul testo dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto dove però non si è trovata traccia dei soggetti di questi dipinti. Nessun personaggio si presenta nudo all’ingresso di un giardino, e nemmeno insegue una donna dalla strana capigliatura proteggendosi con uno scudo. Non si trova nemmeno la scena con due amanti in una alcova che, con espressioni turbate, si passano una coppa. La donna inseguita nel giardino pareva assomigliare a Medusa ma nel mito classico il personaggio che la affronta, con uno scudo di bronzo levigato come uno specchio, è Perseo, che non compare nei due poemi ispirati a Orlando.

La lettura dell’Orlando Innamorato invece si è rivelata fruttuosa. L’intera serie di frammenti policromi conservati alla Galleria Estense è tratta dal poema di Matteo Maria Boiardo, in particolare dalla storia di Prasildo narrata nel canto XII del Libro I.

Il poema di Matteo Maria Boiardo (1441-1494) venne composto nella seconda metà del secolo XV e stampato per la prima volta a Reggio Emilia nel 1483 in due soli libri, edizione oggi perduta. Alle edizioni successive vennero poi aggiunti un terzo libro incompiuto e alcuni sonetti in onore del poeta[26]. Ispirandosi ai cicli di leggende bretoni e carolinge, e mescolandole con temi tratti dai testi classici dell’antichità, Boiardo creò uno scenario originale e ricco di seduzioni, in cui, più che alle descrizioni di duelli e battaglie, viene dato grande risalto agli aspetti amorosi, magici e fantastici. Il racconto è ovviamente incentrato su Orlando visto come cavaliere errante e “servo d’amore”, in cerca di avventure e meraviglie, in guerra continua con mostri, giganti e incantesimi, ma “all’intreccio principale (l’amore di Orlando per Angelica) si allacciano episodi svariatissimi, le più strane avventure, fatti d’arme e idilli, con incanti, magie e fantagioni, mostri, draghi, descrizioni di paesi fantastici e di giardini meravigliosi”[27].

L’Orlando Innamorato però, forse per la sua natura frammentaria e per il linguaggio adatto più al pubblico delle corti ancora legato a nostalgie cavalleresche e feudali tardo-medievali che al “mondo nuovo” che si andava delineando già alla fine del ‘400, ebbe scarsa diffusione nei secoli successivi, quasi fosse un poema “minore” il cui pregio esclusivo era quello di aver aperto la strada all’eccelso Orlando Furioso.[28] Le vicende di Orlando divennero famose più per la rielaborazione in modi più “popolari” del poema boiardesco che diede il toscano Francesco Berni[29] e soprattutto grazie al grande successo che arrise all’Orlando Furioso, ideale continuazione scritta in un linguaggio più moderno da Ludovico Ariosto nei primi decenni del ‘500.

La storia rappresentata in questa prima serie di “frammenti” è dunque tratta da un breve racconto, inserito all’interno della vicenda principale dell’Orlando Innamorato, che appare come una interpolazione tra la storia del Ramo d’Oro narrata da Virgilio nell’Eneide e quella degli sfortunati amanti babilonesi Piramo e Tisbe narrata da Ovidio, già ripresa in precedenza da Giovanni Boccaccio in De claris mulieribus e successivamente da Shakespeare in Sogno della notte di mezza estate.

Il barone di Babilonia Prasildo, durante un gioco di società in un giardino, si innamora di Tisbina che però ama Iroldo. Il barone, disperato per il rifiuto della fanciulla e lamentandosi per la triste sorte, si reca in un bosco con l’intenzione di uccidersi. Nascosti, Iroldo e Tisbina ne ascoltano i proponimenti e impietositi decidono di impedire il suicidio. Tisbina fa credere a Prasildo di essere disposta ad amarlo a patto che lui riesca a conquistare un ramo del Tronco del Tesoro, che si trova in un giardino magico nel paese di Barbaria. Tisbina sa che custode dell’albero è Medusa, il cui sguardo fa dimenticare il passato, e pensa di poter così guarire il mal d’amore di Prasildo ed essere libera. Prasildo parte per il viaggio verso il giardino di Medusa, e, dopo aver attraversato il Mar Rosso, arriva ai Monti di Barca dove incontra un vecchio saggio che gli insegna come riuscire nell’impresa. Egli dovrà entrare completamente nudo attraverso la Porta della Povertà, armato solo di uno scudo specchiato, e dovrà poi uscire attraverso la Porta della Ricchezza lasciando parte del ramo a quest’ultima, che è compagna di Avarizia. Prasildo seguendo i consigli del vecchio entra nel giardino e fa fuggire Medusa grazie allo specchio in cui la Gorgone vede riflesso il proprio orribile aspetto. Uscito dal giardino con il Ramo d’Oro, Prasildo si incammina di nuovo verso Babilonia per reclamare da Tisbina la promessa di matrimonio. Iroldo e Tisbina disperati, non vedono altra soluzione che uccidersi con un veleno che avrà effetto solo dopo qualche ora. La fanciulla, dopo aver bevuto il veleno assieme a Iroldo, si reca da Prasildo e gli dice che secondo i patti, avendo conquistato il Ramo d’Oro, potrà averla ma solo per poche ore perché lei non potendo vivere senza Iroldo si è avvelenata. Prasildo è sconvolto, dice che mai avrebbe voluto che la storia avesse questa conclusione e scioglie Tisbina dalla promessa. La ragazza, colpita da tanta generosità si dichiara “vinta” e innamorata di un uomo così nobile. Tisbina cerca di tornare da Iroldo per raccontargli l’inaspettato volgere della sorte, ma cade a terra in deliquio sotto l’effetto della bevanda. Nel frattempo anche Prasildo si dispera per il tragico esito di quel grande amore, ma riceve la visita di un medico che gli racconta di aver dato alla cameriera di Tisbina un sonnifero, invece del veleno che gli veniva richiesto, sospettando che la donna avesse intenzione di ucciderlo. Prasildo rincuorato dalla rivelazione corre a casa di Tisbina e trova Iroldo disperato per non essere già morto come l’amata. Anche Iroldo rimane colpito dalle nobili parole del barone che ha sciolto Tisbina dalla promessa, e decide di andarsene da Babilonia, lasciando la fanciulla a chi si era giustamente conquistato il suo amore con cortesia e affrontando gravi pericoli. Quando Tisbina si risveglia trova accanto a sé Prasildo,  si arrende al suo amore e decide di sposarlo.

Questi dunque i soggetti della serie di “frammenti” attribuiti a Nicolò dell’Abate:


Prasildo e il vecchio

1)    Prasildo e il vecchio (cat. 62A).

Prasildo dopo aver attraversato in nave il Mar Rosso approda ai Monti di Barca, dove incontra un vecchio che gli spiega come rubare il ramo d’oro dal Tronco del Tesoro, un albero magico che produce gemme, perle e altri preziosi, e che si trova nel giardino di Medusa.

 

32.
Quello animoso amante via cavalca
Soletto, o ver da Amore acompagnato.
Il braccio de il mar Rosso in nave varca,
E già tutto lo Egitto avea passato,
Ed era gionto nei monti di Barca,
Dove un palmier canuto ebbe trovato;
E ragionando assai con quel vecchione,
Della sua andata dice la cagione.


Prasildo e Medusa

2)    Prasildo entra nel giardino di Medusa (cat. 62B).

Prasildo nudo si presenta alla Porta della Povertà, l’ingresso al Giardino, armato solo di uno scudo specchiato con il quale fa fuggire la Gorgone Medusa, terrorizzata dal proprio aspetto che vede riflesso. All’altro capo del Giardino c’è la Porta della Ricchezza, dalla quale Prasildo potrò uscire dopo aver staccato un ramo d’oro.

37.
Prasildo ha inteso il fatto tutto aperto
Di quel giardino, e ringraziò il palmiero.
Indi se parte e, passato il deserto,
In trenta giorni gionse al bel verziero;
Ed essendo del fatto bene esperto,
Intra per Povertate de leggiero.
Mai ad alcun se chiude quella porta,
Anci vi è sempre chi de entrar conforta.

38.
Sembrava quel giardino un paradiso
Alli arboscelli, ai fiori, alla verdura.
De un specchio avea il baron coperto il viso,
Per non veder Medusa e sua figura;
E prese nello andar sì fatto aviso,
Che all'arbor d'oro agionse per ventura.
La dama, che apoggiata al tronco stava,
Alciando il capo nel specchio mirava.

39.
Come se vide, fu gran meraviglia,
Ché esser credette quel che già non era;
E la sua faccia candida e vermiglia
Parve di serpe terribile e fera.
Lei paurosa a fuggir se consiglia,
E via per l'aria se ne va leggiera;
Il baron franco, che partir la sente,
Gli occhi disciolse a sé subitamente.

 

 


3)    Prasildo esce dal giardino attraverso la Porta della Ricchezza (cat. 62C).Prasildo e la Ricchezza

Prasildo per poter uscire dalla Porta della Ricchezza deve donare una parte del ramo d’oro alla Ricchezza, vicino alla quale è seduta Avarizia, che tiene in mano una chiave.

40.
Qinci andò al tronco, poi che era fuggita
Quella Medusa, falsa incantatrice,
Che, de la sua figura sbigotita,
Avea lasciata la ricca radice.
Prasildo un'alta rama ebbe rapita,
E smontò in fretta, e ben si tien felice;
Venne alla porta che guarda Ricchezza,
Che non cura virtute o gentilezza.

41.
Tutta de calamita era la entrata,
Né senza gran romor se puote aprire.
Il più del tempo si vede serrata:
Fraude e Fatica a quella fa venire.
Pur se ritrova aperta alcuna fiata,
Ma con molta ventura convien gire.
Prasildo la trovò quel giorno aperta,
Perché de mezo il ramo fece offerta.

 


Prasildo e il Ramo d'Oro

4)    Prasildo con il Ramo d’Oro (cat. 62D).

Prasildo fa ritorno a Babilonia, portando con sé il ramo d’oro, da consegnare a Tisbina.

 

42.
De qui partito torna a caminare;
Or pensa, cavallier, se egli è contento,
Che mai non vede l'ora de arrivare
In Babilonia, e parli un giorno cento.
Passa per Nubia, per tempo avanzare,
E varcò il mar de Arabia con bon vento;
Sì giorno e notte con fretta camina,
Che a Babilonia gionse una matina
.

 


Iroldo e Tisbina

5)    Iroldo e Tisbina (cat. 62E E FIG.5).

Iroldo e Tisbina decidono di morire assieme, bevendo il veleno da una coppa, così da sfuggire alla promessa di Tisbina di andare in moglie a Prasildo se costui avesse superato la prova.

 

59.
E poi che per mitade ebbe sorbito
Sicuramente il succo venenoso,
A Tisbina lo porse sbigotito.
Lui non è di sua morte pauroso
Ma non ardisce a lei far quello invito;
Però, volgendo il viso lacrimoso,
Mirando a terra, la coppa gli porse,
E de morire alora stette in forse

 


Medico e cameriera?

6)    Due personaggi a colloquio (cat. 62F).

Probabilmente questa scena raffigura la cameriera di Tisbina che ottiene il veleno dal vecchio medico. Questo è il frammento peggio conservato, ma si possono identificare un vecchio con un lungo abito e la testa di una donna.

 

83.
E ciò te dico, perché stamatina
Me fo veneno occulto dimandato
Per una cameriera de Tisbina.
Or poco avanti me fu racontato
Che qua ne venne a te la mala spina.
Io tutto il fatto ho bene indivinato;
Per te lo tolse, e tu da lei ti guarda:
Lasciale tutte, che il mal fuoco l'arda.

 


Eneide_Canto VI

Il Ramo d'Oro

 

Il tema del “Ramo d’Oro”, che fa da sfondo mitologico alla vicenda amorosa, pare essere stato molto importante per i Boiardo e per Nicolò dell’Abate. Nel Canto VI dell’Eneide (cat. 53D), raffigurato nel camerino, si vede infatti in primo piano la stessa vicenda narrata da Virgilio. La porta degli inferi, alla quale è di guardia Cerbero, ha addirittura la medesima forma ed è caratterizzata da grossi blocchi di pietra simili a quelli del Giardino di Medusa nella scena dell’Orlando Innamorato.

Enea, in questa più conosciuta e classica versione, per raggiungere il padre morto deve attraversare l’entrata di una grotta per entrare nel Tartaro, una oscura selva dove si trova la palude Stigia e scorre il fiume Acheronte. Per riuscire nell’impresa dovrà per prima cosa cogliere il Ramo d’Oro, consacrato a Giunone, per offrirlo a Proserpina, spaventosa divinità degli inferi. Enea guidato da due colombe trova il Ramo d’Oro e, grazie a questo “talismano”, riesce a superare diverse prove, tra cui affrontare le Gorgoni, incontrare le anime dei morti, attraversare lo Stige e passare la Porta dell’Averno custodita da Cerbero, fino a raggiungere il padre.

La versione del Ramo d’Oro raccontata da Matteo Maria Boiardo nell’Orlando Innamorato sembra invece di tutt’altra fattura. I nomi dei personaggi vengono reinventati, i ruoli cambiati e mescolati con altri provenienti da diverse leggende, i temi mitologici e alchemici vengono usati come semplici elementi favolistici, letterari, senza più alcun rapporto con gli esoterici significati originali. Splendor Solis

L’antropologo James Frazer in Il Ramo d’Oro, famoso studio sui riti magici e religiosi, dedica un capitolo proprio a questo episodio virgiliano[30]. Il Ramo d’Oro è stato inoltre raffigurato in moltissime opere ermetiche, come simbolo della riuscita della “Grande Opera” alchemica. L’illustrazione più famosa è la miniatura, contenuta nello Splendor Solis di Salomon Trimosin[31], che raffigura Julio Ascanio, il figlio di Enea, vestito di nero, che si arrampica con una scala sull’Albero Filosofico a raccogliere il Ramo d’Oro per portarlo al padre che è vestito di rosso. Il nero rappresenta l’inizio dell’Opera, mentre il rosso il suo compimento, infatti il Ramo d’Oro dovrà proteggere Enea nel corso del suo viaggio attraverso la decomposizione e il fuoco purificatore degli inferi.

L’episodio del Ramo d’Oro fu alla base della fama di “mago” che ammantò Virgilio nel medioevo, e costituisce il modello della stessa Divina Commedia, in cui il poeta latino diventa la guida di Dante nella discesa all’inferno. Nell’Eneide infatti l’eroe troiano riesce ad attraversare da vivo il regno dei morti, penetrando fin nelle viscere della terra, e a uscirne infine sempre protetto dal Ramo d’Oro, stretto parente della verga aurea di Hermes. E la “rigenerazione” regale conquistata da Enea porterà benefici anche sulla sua dinastia, il futuro ceppo originario della gens Julia, la stirpe fondatrice di Roma secondo la tradizione latina[32].

Non bisogna dimenticare a questo proposito che il conte di Scandiano che commissiona i cicli di dipinti ispirati all’Eneide e al Ramo d’Oro si chiama Giulio; e che suo nonno, lo zio di Matteo Maria, si chiamava come il figlio di Enea, Giulio Ascanio[33]. Giulia si chiamava anche la sorella di quest’ultimo (madre di Pico della Mirandola), e Giulia Gambara era la madre di Giulio Boiardo. Forse non è azzardato supporre che, così come molte altre potenti famiglie dell’epoca, anche i Boiardo abbiano cercato di nobilitare le proprie origini collegandole a quelle delle più antiche stirpi romane.


 

Storie di donne romane

Se il soggetto della prima serie di dipinti è stato rintracciato nell’Orlando Innamorato, la seconda serie di piccoli monocromi non trova riferimenti tra le storie narrate da Matteo Maria Boiardo nel suo poema. I soggetti a prima vista sembrano far parte di un unico racconto, come quelli precedenti, ma a un esame più approfondito appare chiaro che la donna protagonista delle varie scene non è la stessa, e così anche gli altri personaggi di contorno.

Le piccole dimensioni dei dipinti li fanno immaginare come facenti parte di un fregio, probabilmente di una camera dell’appartamento dei Boiardo, e i temi femminili li collegano a quella della contessa Silvia Sanvitale, moglie di Giulio Boiardo. Molti appartamenti muliebri dell’epoca venivano decorati con vicende edificanti di donne virtuose, e così poteva trattarsi anche in questo caso. L’esame delle scene e dei personaggi rivela che si tratta in effetti di “storie romane” e in particolare, storie di donne esemplari.


Coriolano e Veturia

1)    Coriolano incontra la madre Veturia  (cat. 63A)

Coriolano, costretto all’esilio dai patrizi romani si mette alla guida dei Volsci e si dirige verso Roma per dare battaglia. Diversi tentativi di dissuaderlo dall’attaccare Roma non hanno esito, così il senato concede alla madre di lui, Veturia, di uscire dalla città per incontrarlo nell’accampamento dei Volsci per provare a fermarlo. A lei si uniscono la moglie di Coriolano, Volumnia, con i figli e un gruppo di matrone romane. La madre affronta il figlio guerriero e lo convince a non combattere contro la propria patria, ma Coriolano, ritenuto perciò un traditore dai Volsci, viene ucciso[34].


Svenimento di Giulia

2)    Lo svenimento di Giulia (cat. 63B)

Giulia, figlia di Giulio Cesare e moglie di Pompeo, sviene alla vista degli abiti insanguinati del marito sopraffatta dal pensiero che avesse subito qualche violenza. L’emozione le provocherà poi un aborto spontaneo, con grave danno per la repubblica che contava su questo vicolo di parentela per rafforzare l’accordo tra Cesare e Pompeo. Il sangue sugli abiti sarebbe stato di un dimostrante ferito in tumulti di piazza, legati alla elezione degli edili[35], ma secondo una diversa versione Pompeo, sacrificando un animale agli dei, inavvertitamente si sporcò di sangue e incaricò i servi di portare i vestiti a casa. Quest’ultima appare come una ulteriore variante della favola di Piramo e Tisbe, già citata a proposito dell’episodio di Iroldo e Tisbina.


Vestale Tucciua

3)    La vestale Tuccia (cat. 63C)

La vestale Tuccia, ingiustamente accusata di aver mancato al voto di castità, chiede la protezione della dea Vesta affinché l’aiuti a superare la prova imposta per dimostrare la propria innocenza: portare al Tempio l’acqua del Tevere raccogliendola con un setaccio[36]. Il tema è legato ai concetti della virtù femminile (e come tale è stato a volte scelto per decorare cassoni nuziali) e più genericamente a quello della giustizia.


Vestale Emilia

4)    La vestale Emilia (cat. 63D)

L’anziana vestale Emilia, che custodisce il fuoco sacro nel tempio di Vesta, ne affida la cura a una giovane e inesperta novizia che lo lascia spegnare. Una colpa del genere veniva punita con la morte, ma Emilia si rivolge alla dea chiedendo perdono. Dopo la preghiera strappa un lembo della propria veste di lino e lo getta sulla cenere ormai fredda, e in quel momento una grande fiamma divampa di nuovo, facendo intendere che la dea non la ritiene colpevole[37]. Secondo un’altra versione della storia[38] è la giovane vestale a chiamarsi Emilia, ma il verdetto è di condanna.


Storie esemplari di questo genere sono narrate in molti libri di autori dell’antichità, da Tito Livio a Plinio, da Dionigi d’Alicarnasso a Plutarco; in particolare tutte le quattro storie compaiono in Factorum et Dictorum Memorabilium Libri di Valerio Massimo, scrittore romano del primo secolo. Questo testo, che riduceva la storia a una galleria di ritratti legati a un aneddoto da cui si potesse agevolmente trarre una morale, ebbe una larga e costante fortuna fino al Rinascimento e venne più volte tradotto dal latino in volgare nella prima metà del ‘500[39]. Diversi cicli pittorici di artisti come Domenico Beccafumi[40], il Pordenone, il Perugino, sono ispirati a capitoli dei Factorum et dictorum[41]. Più estese e particolareggiate sono le stesse vicende narrate da Dionigi d’Alicarnasso, ma nelle cronache di questo scrittore manca quella relativa a Giulia. È probabile che le medesime storie siano state narrate anche in racconti di epoca più tarda, probabilmente in versioni ulteriormente ampliate. Un autore che ha scritto storie di donne famose è Giovanni Boccaccio, in De claris mulieribus[42], ma in questo testo troviamo, delle quattro scene, solo quelle relative a Veturia e Giulia.

Si è detto che i temi letterari di questa serie di dipinti, che vedono protagoniste donne virtuose ed esemplari, possono far pensare, per il loro contenuto edificante, a una loro probabile collocazione nella camera di Silvia Sanvitale, moglie del conte Giulio Boiardo. Analizzando in questo senso la storia tratta dall’Orlando Innamorato si potrebbe supporre che, proprio per il soggetto narrato, l’episodio del Ramo d’Oro potrebbe essere stato scelto personalmente dallo stesso conte Giulio per i propri appartamenti privati. Ciò che porta a formulare questa ipotesi, alternativa a quella già esposta che vede il cortile come luogo in cui poteva essere dipinta la storia di Prasildo e Tisbina assieme ad altre tratte dai poemi di Orlando, è il fatto che in questo caso si tratta di un racconto poco conosciuto e molto particolare. Solitamente infatti la coppia di giovani amanti, minacciata dalla passione amorosa di un personaggio potente per la fanciulla, alla fine esce vittoriosa mentre il ricco pretendente viene sconfitto e umiliato. Oppure, come nella storia di Piramo e Tisbe narrata da Ovidio nei Fasti, o in quella di Romeo e Giulietta narrata da Shakespeare, i due giovani finiscono per morire pur di non separarsi[43]. Nella vicenda narrata da Matteo Maria Boiardo invece è Prasildo, barone di Babilonia, che dimostrando nobiltà d’animo alla fine riesce a strappare la fanciulla di cui si è invaghito al giovane Iroldo che, pur senza colpa, viene costretto all’esilio. È un vero e proprio capovolgimento del classico finale delle storie di questo tipo. Come se alla fine de I Promessi Sposi Lucia si fosse innamorata dell’Innominato, nel frattempo pentito, dimenticando Renzo; o se Tosca avesse ceduto al barone Scarpia abbandonando al suo destino il povero Cavaradossi; o se, per citare una variante molto recente, Satine nel film musicale Moulin Rouge! avesse volontariamente ceduto alle profferte amorose del ricco duca lasciando da solo il giovane poeta.

Del fatto che entrambi i temi, quello “maschile” e quello “femminile”, provengano dalla residenza dei Boiardo, troviamo conferma in alcuni documenti d’archivio rinvenuti di recente[44] che testimoniano il distacco, avvenuto nel 1773, di dipinti non solo dal cortile ma anche dalle camere adiacenti al camerino (già svuotato delle pitture l’anno precedente). Il capitano Giuseppe Grappi descrive infatti le spese sostenute per “levare pitture in muraglia parte esistenti in una camera annessa al camerino di già levato e parte nella Corte della Rocca di Scandiano”, mentre il muratore Giuseppe Rosi presenta una nota per il lavoro svolto “nel levare alcune piture in muralia essistenti nella Corte e nelle camere della Rocha di Scandiano”. Lo stesso Giambatista Venturi, in uno schizzo della pianta dell’ala est allegato agli appunti relativi alla ricostruzione del camerino dell’Eneide, scrive “Pitture levate”, e “Nell’alto corre per le 3 camere un fregio di pitture, delle quali sono state levate”[45]. Proprio in questa parte dell’edificio, secondo quanto riportato da diversi inventari del XVII secolo[46], si trovavano le “camere dei Boiardi”.

Esistono altre testimonianze che descrivono lo “strappo”, avvenuto nel 1804, di frammenti di affresco dalla rocca.[47] Dai documenti dell’archivio di Antonio Boccolari, già citati in precedenza, risulta che non solo dalla parete nord del cortile ma anche dall’interno dell’ala est, sopra le finestre che guardano nello stesso cortile, vengono staccati da questo “restauratore” alcuni frammenti che apparivano tra i meglio conservati, ma le descrizioni non sembrano avere attinenza con i frammenti in esame. [48]

È possibile dunque ipotizzare che tra le “pitture levate” nel 1773 da ciò che rimaneva degli appartamenti dei Boiardo e dal cortile ci fossero anche quelle che raffigurano le Scene di storia romana e l’episodio dell’Orlando Innamorato, pur non avendo reperito in alcun documento una precisa descrizione dei soggetti dei dipinti.



Note

[1] Diego Cuoghi, Per la definizione dell’originale collocazione del camerino Dipinto e del Paradiso nella Rocca di Scandiano, in Signore cortese e umanissimo, viaggio intorno a Ludovico Ariosto, a cura di J. Bentini, Marsilio, Venezia, 1994, pp.105-117. Purtroppo, a causa di un refuso tipografico nel testo le misure del camerino sono state riportate come 4 x 5,90 invece che 4 x 5 m. falsando il risultato della ricerca. Il disegno con la pianta dell’ambiente, pubblicato nello stesso articolo, è invece corretto e contiene le giuste misure e proporzioni.

[2] Rodolfo Pallucchini, I dipinti della Galleria Estense di Modena, Roma 1945, pp.49-60.

[3] R. Pallucchini, op.cit., p.57.

[4] R. Pallucchini, op.cit., p.56.

[5] Giovanna Paolozzi Strozzi, Vicissitudini storiche degli affreschi abateschi della Rocca dei Boiardo a Scandiano, in Signore cortese e umanissimo, viaggio intorno a Ludovico Ariosto, a cura di J. Bentini, Venezia, Marsilio, 1994, pp. 119-131 e scheda n. 123, p.231.

[6] Walter Bombe, Gli affreschi dell’Eneide di Nicolò dell’Abate nel Palazzo di Scandiano, in Bollettino d’Arte, X, Roma 1931, pp. 543-553.

[7] Sylvie Beguin (a cura di), Mostra di Nicolò dell’Abate, catalogo della mostra, Bologna, 1969, pp. 61-62.

[8] Amalia Mezzetti, Per Nicolò dell’Abate, Mostra di affreschi restaurati, Modena, 1970, p. 36.

[9] G. Paolozzi Strozzi, op.cit.. p.123.

[10] Archivio di Stato di Modena, Camera Ducale, Cassa Segreta, n. 34796, 18 giugno 1772.

D. Cuoghi, op.cit., p.109.

[11] Giambatista Venturi, L’Eneide di Virgilio dipinta in Scandiano dal celebre pittore Niccolò Abati, Modena 1821.

[12] Reggio Emilia, Biblioteca Municipale Panizzi, Ms. Regg. A 53, Giambatista Venturi, Scandiano, sec. XIX.

[13] Orianna Baracchi Giovanardi, Il modenese Antonio Boccolari e l’arte di strappare gli affreschi dal muro, in Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi, serie XI, vol. VI, Modena 1984, pp. 319-340.

Giovanni Prampolini, Gli affreschi di Nicolò dell’Abate, in O. Rombaldi, R. Gandini, G, Prampolini, La Rocca di Scandiano e gli affreschi di Nicolò dell’Abate, Reggio Emilia, 1981, p. 127.

[14] Archivio di Stato di Modena, Archivio Boccolari, filza 10, mazzo 59, (1804-1810).

[15] Reggio Emilia, Biblioteca Municipale Panizzi, Archivio Turri C 38, Francesco Morsiani, Supplemento alla Cronaca di Scan­diano di messer Geminiano Prampolini, 1740 circa.

[16] Antonio Vallisneri, Memorie e iscrizioni sepolcrali del Conte Matteo Maria Boiardo, in Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, tomo 3, Venezia 1730, pp.365-366.

[17] Alfonso Garuti, I restauri e la riscoperta del palazzo, in Il Palazzo dei Pio a Carpi, a cura di L. Armentano, A. Garuti, M. Rossi, Milano, Electa, 1999, p. 30.

[18] Massimo Pirondini, Elio Monducci, La pittura del Cinquecento a Reggio Emilia, F. Motta, Milano, 1985, p. 13.

[19] Ludovico Vedriani, Raccolta de’ pittori, scultori et architetti modenesi più celebri, Modena 1662, p.64.

[20] Girolamo Tiraboschi, Notizie de’ pittori, scultori, incisori ed architetti nativi degli stati del Serenissimo Signor Duca di Modena, Modena 1786, VI, p. 226.

[21] Reggio Emilia, Biblioteca Municipale Panizzi, Geminiano Prampolini, Cronaca di Scandiano, ms., sec. XVI.

[22] Giovanni Godi, Nicolò dell’Abate e la presunta attività del Parmigianino a Soragna, Parma, 1976.

[23] Massimo Pirondini, Elio Monducci, La pittura del Cinquecento …, cit., pp. 140-141.

[24] Un autore che sembra aver lavorato a Scandiano prima di Nicolò è un ignoto artista bolognese che ora è chiamato “Johanne bononiensis pictor”, ora “Johanne dicto Siboga pictor de Bononia”, come riferito da Reichenbach che lo segnala operante all’epoca di Matteo Maria Boiardo per almeno dieci anni, dal 1488 al 1497; e da lui dunque, prima che Nicolò dell’Abate, sale, anditi, gabinetti e cortili della Rocca potrebbero essere stati decorati con scene, il cui soggetto era probabilmente suggerito dallo stesso Matteo Maria.

Giulio Reichenbach, Matteo Maria Boiardo, Bologna, Zanichelli, 1929, pp. 263-264.

[25] Jeanne van Waadenoijen, “Nicolò dell’Abate e Matteo Maria Boiardo”, in "Aux Quatre Vents". A Festschrift for Bert W. Meijer, a cura di A.W.A. Boschloo, W.E. Grasman, G. Jan van der Sman, Firenze, 2002. p. 58.

[26] Matteo Maria Boiardo, Orlando Innamorato, i tre libri del innamoramento di Orlando, Venezia, 1535.

[27] Giovanni Prampolini, Le Storie di Orlando. Rappresentazioni pittoriche e sceniche dell’ “Innamorato” e del “Furioso”, Modena, 2000.

[28] Gianni Guadalupi, Orlando Innamorato, in “FMR”, n.22, 1984, p.80.

[29] Orlando innamorato, composto già dal Signor M. M. Bojardo et rifatto tutto di nuovo da M. F. Berni, Milano, 1542

[30] James G. Frazer, Il Ramo d’Oro, Boringhieri, Torino, 1973.

[31] Salomon Trimosin, Splendor Solis, 1582, Ms. Harley 3469, British Library, Londra.

[32] Maurizio Nicosia, L’iniziazione e l’albero che non c’è, in “L’Acacia”, n. 2-3, 1997, pp. 35-39.

[33] Secondo diversi storici Giulio Ascanio Boiardo sarebbe uno dei personaggi ritratti nell’ottagono del camerino, e Rita Parma Baudille afferma che lo stesso committente del camerino avrebbe avuto come secondo nome Ascanio.

Rita Parma Baudille, I Cicli dell'Eneide, Scandiano, Rocca, Gabinetto di Giulio Boiardo, in Virgilio nell’arte e nella cultura europea, a cura di M. Fagiolo, Roma 1981, p. 125.

[34] Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium, Mediolani, 1522. V, 4, 1.

Dionigi d’Alicarnasso Antiquitatum sive originum romanorum, Basileae, 1532. VIII, 44, 1.

[35] Valerio Massimo, op.cit., IV, 6, 4.

[36] Ibidem. VII, 1, 5. Dionigi d’Alicarnasso, op.cit., II, 69, 1.

[37] Valerio Massimo, op.cit., I, I, 7. Dionigi d’Alicarnasso, op.cit., II, 68, 3.

[38] Ambrogio Macrobio Teodosio, Saturnaliorum libri septem, Venaetis, 1521. I, 10, 5.

[39] Valerio Massimo volgare nuovamente correcto…, Venetia, 1509

Valerio Massimo volgare & li fatti e li detti li quali sono degni de memoria della città di Roma e delle strane genti, Venetia, 1537. Riguardo alla fortuna di Valerio Massimo si veda il contributo di L. Chines in questo volume.

[40] Roberto Guerrini, Valerio Massimo e gli affreschi di Domenico Beccafumi nel Palazzo Bindi Sergardi in Siena, Athenaeum, 56, 1978, pp. 272-287.

Antonio Pinelli, La bellezza impura. Arte e politica nell'Italia del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari, 2004, pp. 73-122.

[41] Roberto Guerrini, Studi su Valerio Massimo (con un capitolo sulla fortuna nell’iconografia umanistica: Perugino, Beccafumi, Pordenone), Pisa, 1981.

Jacqueline Biscontin, Il fregio del Pordenone in Santa Maria di Campagna a Piacenza, in “Prospettiva”, n.20, gennaio 1980, pp. 59-69.

[42] L’opera de misser Giovanni Boccaccio de mulieribus claris. Venetia, 1506.

Giovanni Boccaccio, Libro de le donne illustri, Vinegia, 1545.

[43] Una ulteriore variante della stessa stessa vicenda si trova una ballata francese del XIV secolo intitolata “Le proclame du Roy” (Cod. Isopontanus Sorb. 43229). Una versione italiana è stata incisa da Fabrizio de André col titolo “Il re fa rullare i tamburi”.

[44] Si veda, in questo stesso volume, L. Silingardi, Apparati, docc. 13 e 14.

[45] Reggio Emilia, Biblioteca Municipale Panizzi, Ms. Regg. A 53, Giambatista Venturi, Scandiano, sec. XIX.

[46] Archivio di Stato di Ferrara, Archivio Bentivoglio, Patrimoniale, Lib. 130-1, 1638-1639.

[47] O. Baracchi Giovanardi, op.cit.

[48] Secondo un documento redatto dal notaio che accompagnava Boccolari «nel piano superiore di essa rocca, nel fabbricato posto a levante e che guarda con due finestre a ponente, nella corte predetta,[...] si osservarono nel fregio superiore della camera in giorno senza soffitto e ridotta ad uso di granaio, alcune testine dipinte da Niccolò Abbate e diversi altri ornati opera dei di lui scolari, di colore quasi perduto affatto e per la massima parte resi imperfetti dalle intemperie e dalla stagione e dai patimenti notabili causati dall’incuria dei muratori fabbricantivi sopra e che hanno lasciata cadere a grande la calcina sui dipinti stessi». Archivio di Stato di Modena. Archivio Boccolari, filza 10, mazzo 59, 1804-1810.